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Archive for the ‘amore’ Category

La vita di Brod fu una lenta assimilazione del fatto che il mondo non era per lei; che, quale che fosse la ragione, non sarebbe mai stata nel contempo felice e sincera. Aveva la sensazione di tracimare, di produrre e accumulare sempre più amore dentro di sé. Ma senza mai scioglimento. Tavolo, incanto dell’elefante d’avorio, arcobaleno, cipolla, acconciatura, mollusco, Settimo Giorno, violenza, pellicina, melodramma, fossato, miele, sottocoppa… niente di tutto questo valeva a smuoverla. Si rivolgeva al suo mondo in onestà, alla ricerca di qualcosa che meritasse la quantità di amore che sapeva di avere dentro, ma a ogni cosa diceva: Non ti amo. Paletto di recinto marron-corteccia: Non ti amo. Poesia troppo lunga: Non ti amo. Cena nella scodella: Non ti amo. La fisica, l’idea di te, le tue leggi: Non ti amo. Nulla sembrava qualcosa in più di quello che era davvero. Tutto era semplicemente una cosa, impastoiata, da cima a fondo, nella propria cosalità.
Se avessimo aperto una pagina a casa del suo diario – che deve aver serbato e serbato in ogni momento, con la paura non che venisse perduto, scoperto o letto, ma di imbattersi un giorno nella cosa che finalmente valesse la pena di scrivere e ricordare e scoprire che non aveva qualcosa su cui scrivere – avremmo trovato una qualche enunciazione del seguente sentimento: non sono innamorata.
E dunque si doveva accontentare dell’idea dell’amore – di amare il fatto di amare cose della cui esistenza non le importava affatto. L’amore in sé divenne oggetto del suo amore. Lei amava se stessa innamorata, amava amare l’amore come l’amore ama amare: ed era in grado, quindi, di riconciliarsi con un mondo tanto diverso da quello che avrebbe auspicato. Non era il mondo la grande menzogna salutare: lo era la sua volontà di renderlo bello e giusto, di vivere una vita già-avulsa in un mondo già-avulso da quello dove tutti gli altri sembravano esistere.

Ogni Cosa è Illuminata

Jonathan Safran Foer

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Vorrei che mi piacessero le spezie, perché così mi sentirei una persona esotica e interessante.

Vorrei che i gatti avessero venti vite anziché sette, e che i cani vedessero a colori.

Vorrei regalare il tempo che perdo a chi sa farne un uso migliore di me, e rubarne un po’ a chi non sa che farne.

Vorrei un’occasione alla settimana per festeggiare, due Natali all’anno e un autunno più lungo.

Vorrei un mondo in cui il pout pourri non esiste, in cui le cassiere sorridono di più e le commesse di meno.

Vorrei che le persone ce l’avessero meno con il tempo; così che il vento, la neve e la pioggia non si ritorgessero sempre contro di loro.

Vorrei essere meno permalosa, più docile e più autonoma. Vorrei avere spalle più forti.

Vorrei avere orecchie più grandi, per ascoltarti meglio, e anche una bocca più grande, per parlarti più spesso.

 

Vorrei un posto al mondo solo nostro, e tanti posti al mondo nostri solo per un po’ di tempo.

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Avete presente quei momenti in cui ci si sente investiti tutto d’un tratto da un’ondata di sensazioni inaspettate? Nausea, fastidio per qualcosa, oppure piacevoli ricordi che tornano a galla quando meno ci si aspetta, la voglia di qualcosa, un istinto improvviso. Mai capitato? A me è successo stamattina, e devo ammettere che ci è voluta una certa mente fredda e un tocco d’analisi per dar forma ai pensieri. Somigliava a un deja-vu, ma senza che tra loro gli elementi avessero una qualche correlazione.

D’un tratto ho sentito una pungente mancanza: mi è mancato quel momento alle elementari in cui le maestre in classe distribuivano le fotocopie, e soprattutto il momento successivo, in cui ne ritagliavo accuratamente i bordi e poi distribuivo la colla a cornice sul retro prima di appiccicarle al quaderno, stendendole con cura. Contemporaneamente mi sono venuti in mente i pantaloni di velluto a costine di mio nonno, color senape, e ho sentito il desiderio di vedere in giro dei signori della sua età con quegli stessi pantaloni: di vedere un’intera squadra di nonni vestita nello stesso modo, così da ricordarmelo più intensamente.

Mi è venuta voglia di calze di lana blu notte, che in giro non si trovano, e di colorarmi i capelli rosso rame e acconciarli in una treccia. Mi è venuta voglia dei limoncini canditi di Amy di Piccole Donne, che a me i canditi non son mai piaciuti ma quelli sembravano davvero buoni; avrei voluto nello stesso momento impastare un dolce, incartare un regalo, cantare Fiori Rosa, Fiori di Pesco di Battisti davanti allo specchio, senza via d’uscita tra quale di queste attività scegliere.

Una volta che queste sensazioni mi hanno pian piano abbandonato, mi è rimasta addosso un’enorme carica vitale, come una spinta in avanti di poter essere tutto e desiderare qualsiasi cosa, e un fondo di calore e di dolcezza.

Sarà stato un regalo di Santa Lucia?

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Oggi penso ai cumulonembi, sebbene in cielo non ce ne siano: “cumolonembi” mi sembra un nome regale, e chissà se ci sarà una dinastia chiamata così.

Penso alle persone con gli occhi buoni, che non ce ne siano mai abbastanza. Penso ai sorrisi e alle parole di incoraggiamento delle persone con cui lavori, che ti fanno pensare di trovarti nel posto giusto. A quella pacca sulla spalla che fa sentire incredibilmente meglio e a chi la aspetta da tempo. Penso agli aneddoti buffi durante le pause e chi sa raccontarli bene.

Penso a chi si sposa oggi.

Penso ai miei sogni strampalati e affollati, e a come i frammenti di questi sogni vengano fuori durante tutto il giorno successivo, per affinità con quello che succede o a cui sto pensando. Come un puzzle che va ricomponendosi piano piano e fa appena in tempo ad esser pronto, prima che possa iniziarne subito uno nuovo.

Penso alla voglia di polenta fritta che mi viene appena fa un poco freddo.

Penso al mio otto ottobre scorso, a me e te ad Amsterdam insieme per la prima volta. Al fatto che non faceva poi così freddo, alla mia giacca rossa. A quanto mi sembrava folle e giusto allo stesso tempo, quello che stavo facendo. Penso a quel musicista di colore che suonava nel parco la domenica, al cielo terso di quel giorno, al nostro piccolo pic-nic sull’erba. Penso a tutti i posti che mi hai fatto scoprire tendendomi per mano, alla città vista dalla tua bicicletta mentre mi stringevo a te, a quanto mi è piaciuto immergermi in quella vita.

Penso a quanto mi piace indossare camicie celesti.

Penso alla corona d’alloro della mia laurea, che ho appeso, tutta spruzzata di lacca, a una mensola di camera mia. E mi chiedo se è contenta di restare con me.

 

Penso che tra poco ci sarà la sagra del cinghiale dalle mie parti, e a quanto sarebbe bello andarci insieme. Penso che sarebbe proprio bello.

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Per la prima volta dopo molto tempo, credo da anni, ieri il mare è riuscito a trasmettermi un senso di pace totale, e a ricaricarmi le energie. A farmi sentire in quel modo, completamente rilassata, indubbiamente ha contribuito il fatto di essere sola attorno a pochi sconosciuti, il lettino posizionato sul bagnoasciuga, e la bella giornata calda e ventilata.  Ma sopratutto è la perfezione della scena che si svolgeva intorno che mi hanno dato quella sensazione: lo stagliarsi della copertina del mio libro all’orizzonte, lo scintillio tremolante del sole sulla distesa d’acqua chiara, i rumori, attenuati dalle onde, delle persone intorno. E la completa serenità che mi ha pian piano investito, derivava dal fatto che non ero un semplice osservatore di quel mondo, ma ne facevo parte, e di conseguenza più che i dettagli del quadro ne percepivo la bellezza d’insieme.  E per tutto il giorno ho mantenuto quella visione incantata, e i particolari –  l’ombra dei gabbiani in volo sulla sabbia, i movimenti lentissimi della signora distesa ad abbronzarsi poco distante da me, il calore sulla pelle, lo scorrere dei passanti sulla riva – abbellivano il tutto senza mai stonare o uscire dai contorni.

In quel momento, pensando a me, alla mia vita e a quello che mi circondava, mi sono sentita felice, e ho pensato a te: a te quando mi dici che per essere felici insieme due persone devono innnanzitutto essere felici singolarmente, e in un attimo non mi è più sembrato tanto difficile, ma anzi naturale. Ho sentito di comprendere fino in fondo quello che mi hai sempre detto, e per questo mi sono sentita molto vicina a te, perché incarnavo in quel momento alla perfezione un tuo pensiero, e ti sono stata infinitamente grata di avermelo trasmesso, e lo sono tuttora.

E’ stata una sensazione illuminante e nitida, ma non pretendevo che durasse tale e quale all’infinito, sapevo che sarebbe sbiadita anche per qualche futile motivo, che avrei sentito presto il folle bisogno di averti fisicamente accanto per essere davvero felice. Ma resto contenta di aver percepito così bene ciò di cui tu mi hai spesso parlato, resto consapevole di quello che deriva da quel momento e lo terrò sempre presente, ricordandolo con chiarezza.

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Grigio

Di grigio cenere, forse più chiaro. Così Emma colorava il cielo, nei suoi dipinti. Usava lo stesso colore per tutti, ed era sorprendente come riuscisse a creare sempre la stessa tonalità. Non importava se volesse rappresentare alberi e paesaggi o una scena d’amore, lo sfondo era sempre quel cielo sobrio, quasi trasparente, come ad essere neutrale con tutti i suoi soggetti. Riserbava i colori vivaci alla parte inferiore del quadro, senza una predilezione particolare per uno o l’altro, ma sempre con un certo garbo.

“Certo che sei strana forte! Perché sempre quel colore insignificante? Oggi per esempio, è una giornata serena e luminosa perché non trarne ispirazione e inaugurare un bel turchese?”

Le ammonizioni della sua coinquilina non potevano lasciarla più indifferente, motivare la sua scelta non le interessava. Al massimo poteva rispondere con una frase sconnessa dal contesto come “ha telefonato tua madre”, ma senza mai staccare gli occhi dal quadro. Quella non era l’occupazione principale di Emma, non frequentava una scuola dedicata e neanche coltivava in maniera costante questa sua passione:  si potrebbe dire che era come se fosse affetta da attacchi d’arte, come se la pittura fosse per lei una malattia a poussés, che per mesi non le lasciava scampo, e poi si quietava.  Le fasi di attività non avevano però frenesia, era un susseguirsi di rituali dal ritmo cadenzato. Sedersi la mattina nello studio, intingere i pennelli nel colore, lavorare la tela: tutto procedeva con estrema calma ogni giorno fino a sera. E non lasciava mai un lavoro inconcluso, non si dedicava ad altro finché non lo portava a termine, non importava quanti giorni avesse richiesto.

Senza che Lui le avesse chiesto niente, una notte che dormirono insieme dopo l’amore, Emma prese a parlare del dipingere. Sembrava in trance, più che davvero sveglia. Allungando le gambe magre sotto il lenzuolo e fissando il soffitto, volle spiegare che il grigio del suo cielo, di tutti i suoi cieli, era il colore attraverso cui lei si guardava attorno. “Come attraverso una coltre di nebbia, una tenda sottile o delle lenti scure. Sono imparziale con quel che dipingo perché è così che tutto mi appare”.  Lui l’ascoltava in silenzio, temendo che una domanda potesse destarla del tutto e farla interrompere. Ma alla fine non si trattenne e le chiese: “Vedi così anche me? Fosco e appannato?” Lei si voltò e sgranò gli occhi verdi, come se solo in quel momento si accorgesse della sua presenza – “Tu sei coperto di fuliggine, potrei soffiarti sopra e scoprirti, ma non voglio. Perché sei tanto qui adesso, quanto assente domani, e allora non c’è motivo per guardarti sotto un cielo blu.”

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Sogno o è domenica?

Oggi mi porti a spasso in vespa, per strade di città che conosco appena, tra serrande abbassate e pochi passanti stanchi. Io, dietro di te, rispondo con un “si” a tutto ciò che dici, facendo finta di capirti mentre tutte le tue parole si perdono nell’aria e tra i miei capelli; mi tengo a te ma non ti stringo. E non smetto mai di sorridere, mai, neanche quando tu non puoi vedermi, perché per noi non è mai domenica, è solo un altro Giorno di una vacanza interminabile. Ci fermiamo all’ombra di un piccolo balcone, appoggio i piedi a terra su un ciottolato un po’ sconnesso, e mi sento avvampare le guance sotto il tuo sguardo: non so se sono i tuoi occhi, o è il caldo che mi avvolge all’improvviso.

Ti tengo per mano e insieme ci affacciamo nei vicoli, ti affianco in silenzio, stringendo un po’ gli occhi alla luce, col capo leggermente chino, senza chiederti dove mi stai portando. Aspetto che tu mi dica: “Lo sai che facciamo adesso?”, per risponderti contenta che no, non lo so, e attendo in estasi la tua risposta. Ed è come recitare una breve formula magica, concordata tra noi, avendo la certezza che è quella giusta, ma non sapere cosa c’è da aspettarsi. Vivere la sorpresa come una forma di premura. Lasciare che tu decida per me, che tu indovini per me. E ti circondo con gli occhi mentre mi parli, cercando di non perdermi neanche una smorfia del tuo viso. E intanto puoi raccontarmi infinite storie, non c’è fretta di arrivare né di tornare: perché quando siamo insieme non è mai domenica, è solo un rincorrersi di Ore che fanno a gara per chi è la più dolce e la più veloce, e arrivan sempre tutte pari merito.

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